La mostra Veneri di Cleo Fariselli alle OGR Torino

Le statuette di Veneri preistoriche sono tra gli argomenti di dibattito più stimolanti e fertili nell’ambiente dell’Archeologia. Nel corso degli anni innumerevoli teorie e interpretazioni si sono susseguite per cercare di dare una spiegazione a queste figure enigmatiche e affascinanti. Tra le teorie più accreditate troviamo quella che vede le statuette come rappresentazioni di entità divine femminili: l’archetipo della donna creatrice e feconda, in contatto con i cicli lunari e le forze della natura. Un’altra teoria ipotizza che queste figure siano un tentativo di auto-rappresentazione delle donne che, non disponendo di specchi, ritraevano il proprio corpo schiacciato dalla distorsione prospettica.

Quando ero incinta. c’è stato un momento in cui ho sentito il bisogno di fermarmi e ascoltarmi, di sintonizzarmi su quello che stavo vivendo ad un livello più profondo. Da quel momento cruciale sono scaturite le mie figure di Veneri. Sono ventuno in totale, le ho realizzate tutte nel terzo trimestre di gravidanza, per sostenermi nel presente ma anche in preparazione al parto, che ho scelto di fare in casa, in loro presenza.

Mia figlia Teti è nata 16 mesi fa. È stata la mia prima gravidanza, e mi ha cambiato la vita. Sono giunta a questa esperienza senza nessuna preparazione se non un’accozzaglia di stereotipi e pregiudizi sul tema. Le mie nozioni su gestazione e parto erano un cocktail tra scene di film, immagini dalla storia dell’arte, nozionistica medica, immagini pubblicitarie e racconti intercettati qua e là, da parenti, amiche e conoscenti.

Ma già dai primi mesi ho iniziato a provare un crescente disagio nei confronti del bagaglio di immaginario che mi portavo dietro. Sentivo grandi trasformazioni in atto, sia fisiche che psicologiche, e le immagini preconfezionate alle quali la mia mente cercava di attingere per aiutarmi nel processo di comprensione di quanto stavo vivendo, davvero non si applicavano all’esperienza in sé. Attorno a me, il mondo medico e mediatico non era di grande aiuto nel supportarmi in questa ricerca di senso. E nelle esperienze personali di amiche, parenti e conoscenti faticavo a trovare un mio spazio. Anelavo ad un contesto che mi desse le informazioni necessarie per orientarmi nella giungla di esami e preparativi, ma che al tempo stesso non diventasse schiacciante, consentendomi di vivere queste trasformazioni in modo rispettoso dei miei tempi e modi, e consentendomi di costruire un immaginario che mi rispecchiasse. Questa dimensione per me si è aperta quando ho incontrato una rete di donne, ostetriche ed educatrici perinatali, che mi hanno informata senza indottrinarmi né spaventarmi, aiutandomi ad avere fiducia in me stessa e nel viaggio che avevo intrapreso.

L’aspetto della rassicurazione è stato fondamentale, perché la gravidanza e il parto portano naturalmente con sé una certa dose di paura che, se fomentata, può diventare paralizzante, oscurando la percezione degli aspetti positivi e profondamente empowering di queste esperienze. Chi si approfitta dello stato di vulnerabilità delle persone incinte spaventandole con scenari terrificanti e indicazioni troppo invadenti ha molte responsabilità nel privarle della possibilità di sentirsi protagoniste di una delle fasi più potenti e trasformative della propria vita. Il confine tra autorevolezza e autoritarismo da parte di chi, professionista o meno, si arroga il diritto di impartire consigli e prescrizioni, può essere a volte molto labile.

Quando ero incinta la mia paura si concretizzava in una sorta di claustrofobia: mi sentivo come a bordo di un aereo o di una nave, decollati o salpati per un lungo viaggio che, per quanto molto desiderato, era iniziato senza preavviso e una volta partito non poteva interrompersi prima del tempo, se non a causa di qualche drammatica fatalità. Come in un viaggio, una volta partiti volenti o nolenti bisogna lasciarsi portare e cercare di godersela, sapendo che all’arrivo si sarà trasformati, o comunque in un luogo molto diverso da quello che ci si è lasciati alle spalle. Inoltre l’ultima tappa di questo viaggio sarebbe coincisa con il parto, ovvero l’esperienza universalmente riconosciuta come una delle più intense, dolorose e imprevedibili che si possano sperimentare.

Al di là delle rassicurazioni dall’esterno, sentivo il bisogno pressante di trovare degli strumenti miei per fronteggiare questa paura. Il mio istinto primario è stato quello di rallentare e di fermarmi. Nel silenzio, nella lentezza e nella stasi, riuscivo a relativizzare la paura, percependo chiaramente che non era l’unica forza in gioco. La sua voce era forse la più squillante, ma in sottofondo mormorava un coro ben più complesso, articolato e potente, composto da molte altre voci e suoni, umani e non umani, a volte in accordo, altre in disaccordo. Un flusso creativo imponente e in costante movimento come un grande fiume diretto all’inesorabile balzo di una cascata, che in quel caso era rappresentato dal parto.

Io ho una sola figlia, ma chi ne ha avuti più di uno racconta che ogni gestazione è un’esperienza nuova, un viaggio a sé, unico e irripetibile come la creatura che si porta in grembo. In queste infinite diversità, tuttavia, le gestanti condividono per quei nove mesi un mondo psicofisico comune, in contatto con forze sommerse e ancestrali. Energie potenti e impersonali che connettono chi è in attesa come una rete sotterranea di fiumi. Paesaggi misteriosi e primordiali, familiari e alieni al tempo stesso, dai quali veniamo sfiorate, lambite, inghiottite… e con i quali noi stesse impariamo piano piano a familiarizzare, pur senza conoscerli mai del tutto.

Sintonizzarsi con la gestazione non è qualcosa di scontato. O almeno per me non lo è stato. Come per altri fenomeni naturali (di natura non cataclismatica!) si può sostarvi in contemplazione, mettersi in ascolto, lasciarsi muovere, o si può procedere per la propria strada, anche pensando ad altro. La differenza è che il fenomeno della gravidanza avviene all’interno dei confini del nostro corpo e, che lo vogliamo o no, che ci piaccia o no, che ci pensiamo o no, la gravidanza procede, ci muove, ci cambia, ci demolisce e ci costruisce, e tutto ciò avviene da sé, in maniera del tutto autonoma dalla nostra ragione e volontà. Il fatto di fermarsi e di mettersi in ascolto è una scelta, proprio come faremmo di fronte a un tramonto o a un’eclissi. L’unica differenza, è il grado di preparazione psicofisica con cui arriveremo all’ultima tappa, che nel caso della gravidanza è rappresentata dal parto. E durante il parto pensare ad altro è impossibile. Il parto è travolgente, è presenza pura, è qui e ora animale, è un’eruzione vulcanica nelle acque del mare.

Tra il secondo e il terzo trimestre, nella mia ricerca di lentezza, di ascolto, di immersione in me stessa e di creazione di un immaginario di riferimento che mi si attagliasse, ho riscoperto il disegno. Sentivo il bisogno di qualcosa che mi aiutasse a connettermi e al tempo stesso che mi consentisse di appuntarmi le sensazioni e le visioni che provavo. Cercavo di capirmi, di esplorare quel mio non essere più sola, quel sentirmi luogo, nido, paesaggio, animale, fucina ribollente… ho iniziato così con le primissime figure, tracciate semplicemente a matita su un foglio bianco. Mentre la grafite scorreva sulla carta, con gli occhi socchiusi cercavo di sintonizzarmi su come sentivo. Ne sono risultate delle figure piuttosto sgraziate, con teste piccole, grandi ventri, seni protrudenti, mani e piedi quasi inesistenti. Il parallelo con le sculture di Veneri preistoriche è stato inevitabile. Così me le sono andate a riguardare, e ho iniziato a percepirle sotto una nuova luce: mi sembrava che mi parlassero e avrei voluto tenerne una con me, non come reliquia ma come strumento. Tenerla in mano, in tasca, o vicino a me, come un talismano. Mi sembrava che una donna prima di me, molto prima di me, avendo attraversato il viaggio della gravidanza, o più probabilmente molti più di uno, si fosse fermata e avesse deciso, più o meno come stavo facendo io, di fissare in una forma il suo corpo come gestante o in generale il suo corpo, capace di questi straordinari mutamenti; per tenerlo con sé, come un piccolo trofeo, un simulacro di ciò che il corpo può fare, di ciò che noi possiamo fare, e di mostrarlo ad altre, magari giovani o primipare, per comunicare loro:

Il tuo corpo è cambiato, sta cambiando, cambierà.
Gli equilibri sono diversi, e in costante mutamento.
Rallenta, fermati.
A volte è la pancia che comanda.
La pancia va da sola.
La pancia sa quello che fa.
Devi fidarti di lei. 
Devi fidarti di te stessa.
Sei forte, sei forza divina.
Non avere paura.

Una rassicurazione. Un promemoria. Un invito alla fiducia in me stessa, in connessione con il mondo. Sono una donna ma sono anche una roccia. Sono una donna ma sono anche foresta, fiume, ingranaggio, belva, oceano, lava che brucia.

Ina May Gaskin è un’ostetrica mitica, che dagli anni ’70 negli Stati Uniti ha aiutato centinaia (forse migliaia?) di donne a partorire, facendo informazione per una gestazione e un parto più consapevoli e attivi, e rilanciando la cultura del parto in casa. Nei suo libro “La gioia del parto” mi hanno molto colpito quei racconti in cui durante momenti chiave del travaglio le ostetriche o le altre donne che assistevano, proponevano alle partorienti delle immagini, delle figure da guardare. Un fiore che si schiude. Una statuetta raffigurante una donna la cui vagina si apre, con il sorriso sulle labbra. Mi sono tornate in mente le Sheela-Na-Gig, le figurine medievali diffuse su capitelli e decorazioni di chiese, castelli ed altre architetture, di figure che con le mani tengono aperta la propria vulva gigantesca, sorridendo serene. Anche loro sembrano dire “puoi aprirti, puoi farcela, non avere paura, fidati delle possibilità del tuo corpo, è fatto apposta”.

L’approccio di Ina May Gaskin rispetto al parto è definito “natural, old-age-inspired and fearless” (ovvero naturale, ispirato ai modi dell’antichità e libero dalla paura). Tenere a bada la paura, è un elemento centrale, come lo è in tutti i riti di passaggio.

Accettare la presenza del dolore non è l’unica sfida del parto. Perché, sorprendentemente, nel parto non esiste solo il dolore. Il grande non detto, il grande tabù, e la spiazzante, scabrosa, strabiliante scoperta, da sussurrare alle amiche che ti guardano incredule con gli occhi strabuzzati, è che nel parto c’è anche il piacere. La vagina non è un orifizio come un altro, e il parto rientra nello spettro delle potenzialità sessuali del corpo femminile. La vagina si apre quando c’è amore, quando c’è contatto e sensualità, quando c’è fiducia. E il parto, con i suoi rush ormonali e il suo incedere ritmico, predispone a tutto questo: a una colossale esperienza amorosa, erotica, tempestosa e stravolgente. Ci vuole coraggio anche per accettare il piacere laddove mai avremmo pensato di trovarlo. E ci vuole io credo un po’ di rabbia e rivolta, verso una narrazione culturale e sociale che ancora dipinge la gestante e la partoriente come soggetti passivi, deboli, martiri di un sacrificio anziché come soggetti attivi e potenti, protagonisti di un eccezionale processo creativo.

La natura profondamente empowering di gravidanza, parto e maternità sono state per me una scoperta sul campo che mai avrei immaginato prima di sperimentarle in prima persona. Nulla, nella narrazione main stream, mi avrebbe fatto sospettare che mi sarei sentita così, in questo momento della mia vita. E questo mi ha folgorata, ma mi ha anche fatto arrabbiare. Che cosa sarebbe successo se non mi fossi imbattuta nelle persone giuste? Che cosa sarebbe successo se mi fossi accontentata del percorso di routine, senza informarmi e scavare più a fondo? Che cosa sarebbe successo se la gravidanza anziché in questo momento della mia vita mi avesse trovato più giovane e inesperta, e più facilmente influenzabile? Tutte le gravidanze e tutti i parti sono diversi: lenti, veloci, facili, difficili, lisci o irti di ostacoli. Ma in questo viaggio mi sono convinta che il ruolo della consapevolezza della gestante e di chi accompagna, è sostanziale, e può essere l’elemento essere discriminante tra una delle esperienze più positive o traumatiche della propria vita. Per me le immagini sono state importanti. Mi piace pensare che si inseriscano in una linea cominciata con le statuette di Veneri decine di migliaia di anni fa. Rendere pubbliche queste figure non è stata una decisione presa alla leggera, perché sono state per me delle compagne molto intime, e una parte di me voleva, e tuttora vuole, proteggerle. Se l’ho fatto è perché spero che altre persone possano trovare ispirazione, forza e rassicurazione in loro, augurando a tutte di vivere le trasformazioni del proprio corpo nel modo più aperto, ricettivo e senza paura possibile.

di Cleo Fariselli

Giovedì 8 Settembre 2022 alle ore 18.00 – OGR Torino
La gravidanza, il parto, la maternità, le energie primordiali e le sensazioni durante la cruciale esperienza della nascita: un’inedita serie di dipinti ad olio su tavola prodotta dall’artista Cleo Fariselli accompagnata da Greta Schödl, Anna Ruocco, Cecilia Canziani in conversation.